Non ci sono le ragioni per salvare la società Attiva
dal fallimento
Il Mattino di
Padova, 4 dicembre 2009
Finalmente i
nuovi amministratori dell’ex Cosecon, ora Attiva,
sembrano intenzionati ad affrontare sul serio la
situazione disastrosa ereditata dalle precedenti
gestioni. Da anni la società è paralizzata da debiti
insostenibili - nel 2008 è stata raggiunta la cifra
record di 132 milioni di euro - e da decisioni
scellerate che hanno provocato sprechi e
speculazioni private a danno del patrimonio e
dell’interesse pubblico. I problemi sono stati
aggravati da chi, in primo luogo l’amministrazione
provinciale e molti sindaci dei Comuni soci, ha a
lungo negato e occultato la pesante situazione
finanziaria per coprire responsabilità e complicità
politiche.
Basti ricordare che l’Amministrazione provinciale
due anni fa, in piena crisi di Cosecon, ha
partecipato a un aumento di capitale, buttando 800
mila euro in un’operazione fallimentare, e ha
patrocinato modifiche statutarie prive di senso solo
per allungare l’agonia della società. Sulle gestioni
passate sono in corso indagini e processi delle
magistrature contabili, civili e penali e ormai la
società è bloccata, ed è diventata un inutile
carrozzone che paga oneri finanziari alle banche
creditrici.
Oggi ai debiti si aggiungono quattro ulteriori
elementi di difficoltà: 10,5 milioni di perdite fino
a settembre dell’anno in corso, che seguono il
deficit di 7,8 milioni del 2008; i contenziosi che
molti fornitori e clienti hanno intrapreso contro la
società; le ipoteche gravanti su buona parte del
patrimonio immobiliare; l’assenza di un piano
industriale. Tali condizioni rendono, a mio parere,
inevitabile la liquidazione della spa; e questa
decisione sarebbe già stata assunta se la società
fosse controllata da soci privati. Attiva ha un
capitale sociale di 21,5 milioni di euro e i 10,5
milioni di euro di perdite per il 2009 impongono, in
base al codice civile, di ridurre nel 2010 il
capitale in proporzione alle perdite accertate. In
pratica il valore della società dovrebbe essere
dimezzato e i soci dovrebbero prendere atto della
situazione fallimentare e avviare le pratiche per
liquidare la società.
Questo è quanto le leggi vigenti e le regole di
mercato stabiliscono. Se non si chiude
definitivamente con la passata gestione i danni del
passato continueranno a riemergere e a gravare sui
Comuni e sui cittadini. Le varie ipotesi di
salvataggio esposte dai giornali nelle ultime
settimane ricordano da vicino la vicenda Alitalia
che, come è noto, ha comportato costi pubblici
enormi senza rilanciare la compagnia aerea.
Nascerebbero due società: una, gestita dalle
banche, alla quale verrebbero scaricati tutti i
debiti e conferito il patrimonio ipotecato, cioè
quasi tutti i beni immobili di Attiva; l’altra,
libera dagli oneri finanziari, dovrebbe svolgere
ignote e indefinite attività. Intanto verrebbero
concluse le ultime operazioni delle passate
gestioni: la vendita della partecipazione in Veneto
distribuzione, la società che gestisce il gas e
l’affitto o la vendita del cogeneratore di Conselve.
Veneto distribuzione è in vendita da anni senza
successo anche per le modalità poco trasparenti e
illegittime con cui Cosecon la costituì. Il
cogeneratore, realizzato grazie al contributo della
comunità europea e a una variante al piano
regolatore, è fermo da un anno e adesso rischia di
essere ceduto ai privati in barba, ancora una volta,
agli inesistenti interessi pubblici che ne avevano
motivato la realizzazione.
E c’è il rischio concreto che le due operazioni
vengano finanziate ricorrendo a ulteriori prestiti
dalle banche già esposte con i debiti di Attiva. In
pratica accadrebbe l’ennesimo gioco di scatole
cinesi con un ulteriore crescita dell’indebitamento.
Non ci sono ragioni per salvare Attiva dal
fallimento. La società, si perdoni il gioco di
parole, è inattiva, è immobile e non svolge alcuna
funzione di interesse pubblico. Perché bisogna
salvarla e tenerla in vita, magari spendendo ancora
soldi della collettività?