Un grande partito democratico e riformista
per un'Italia nuova
Relazione di Piero Fassino al Consiglio Nazionale DS
Interventi audio video su
Care compagne, cari
compagni, Bottacin ha spiegato che «dopo l'esordio nazionale di
Orvieto, l'Ulivo parte da Verona per porre le fondamenta del
futuro Partito Democratico del Veneto. Sulle rive dell'Adige
dovremo definire il profilo culturale e programmatico e i temi
sui quali si concentrerà l'impegno del futuro partito:
federalismo istituzionale, infrastrutture, welfare, cultura ed
economia». Un "partito nuovo" che deve essere federato in tema
organizzativa (ma anche aperto a tutti: Sdi, Verdi, Liga Fronte
Veneto, liberali democratici, repubblicani», e soprattutto
federalista nel programma con «consistenti contenuti "nordisti"
nel senso non campanilistico, ma di attenzione alla "questione
settentrionale"». Il ds Naccarato è certo che a
Verona «si aprirà un processo importante, inizio del
rinnovamento della politica veneta. La stessa scelta di questa
città è dovuta al fatto che a primavera a Verona si voterà per
il sindaco. Sarà un primo test della nuova formazione politica
da allargare, in seguito, al resto della regione». Ma «non
dimentichiamo le liste civiche» suggerisce il consigliere
Gustavo Franchetto. Che di rinnovamento e riforme il Veneto ha un grande bisogno,
ne è convinto Achille Variati (Margherita) vicepresidente del
Consiglio regionale. E attaccando il presidente Galan, ricorda
che «da dodici anni il Veneto è governato dalla Cdl, ma nulla è
cambiato, nessuna significativa riforma è sta fatta in settori
vitali. Sta a noi far ripartire una nuova fase riformista». C'é
«un vero e stallo della politica veneta» ribatte Giovanni Gallo
capogruppo Ds, «da cui si potrà uscire anche grazie
all'evoluzione dell'Ulivo in Partito Democratico». E se in
Veneto da undici, e fino al 2010, lo scettro è nelle mani della
Cdl, «ciò non toglie di poter provare a ribaltare la situazione»
dice in coro il gruppo di centrosinistra.
sono molti e importanti i cambiamenti intervenuti nei mesi che
ci separano dall'ultimo Consiglio nazionale.
In Medio Oriente, sull'altra sponda del Mediterraneo, è acceso
un altro focolaio di tensione e di conflitti.
Di fronte all’esplodere di un nuovo conflitto armato – suscitato
dai continui attacchi missilistici di Hezbollah a cui Israele ha
risposto con una dura azione militare – l'azione dell’Italia è
stata decisiva per sollecitare l’impegno diretto di ONU e Unione
Europea e per dare alla crisi libanese una risposta politica e
diplomatica.
Questo successo è in gran parte il frutto della determinazione
con la quale il nostro Governo ha dichiarato la sua
disponibilità a schierare, lungo il difficile confine tra Libano
e Israele, truppe italiane sotto le insegne delle Nazioni Unite.
Lì ci sono oggi quasi tremila "caschi blu" italiani, ai quali va
il nostro saluto riconoscente e il nostro sostegno, in uno
scenario esposto a gravi rischi.
In questi giorni, infatti, la vicenda libanese sta conoscendo un
nuovo passaggio critico, con l’assassinio di Pierre Gemayel e un
aspro conflitto politico tra il Governo Siniora e gli Hezbollah.
Una crisi che non solo non smentisce l’impegno del nostro Paese,
ma sollecita ad una nuova immediata azione dell’ONU e
dell’Unione Europea per evitare precipitazioni drammatiche e per
promuovere una mediazione politica che consenta al Libano di
ritrovare stabilità.
Così come è necessario che la comunità internazionale isoli e
contrasti la campagna del Presidente Ahmadinejad di negazione
dell’olocausto e di delegittimazione di Israele e agisca per
favorire e sostenere la formazione di un Governo di unità
nazionale palestinese che possa essere interlocutore delle prime
aperture venute in questi giorni dal governo israeliano.
Nel frattempo, dieci giorni fa, sabato 2 dicembre, la bandiera
italiana è stata ammainata a Nassiriya e riconsegnata dal
ministro della Difesa nelle mani del presidente della
Repubblica, Giorgio Napolitano.
Il Governo ha così mantenuto uno dei principali impegni assunti
in campagna elettorale: entro la fine dell'anno, avevamo detto,
faremo rientrare i nostri soldati dall'Iraq. E così è stato.
Tra queste due decisioni - la missione in Libano e il rientro
dall'Iraq – non solo non c’è contraddizione, ma anzi c'è un
duplice, stretto legame.
Il primo riguarda le nostre Forze armate: identici, in Libano
come in Iraq, sono la professionalità, l'onore, il senso di
umanità, la dedizione alla causa della pace, dei quali i nostri
soldati hanno dato e stanno dando prova, così come identico è il
forte, caloroso sostegno alla loro missione da parte di tutto il
popolo italiano.
Il secondo legame è politico: la decisione di schierare le
nostre truppe in Libano è figlia della stessa visione che ci ha
spinti a far rientrare il contingente dall'Iraq.
Una visione per la quale l’uso della forza, che può essere
inevitabile per garantire e promuovere la pace, deve essere
sempre posto al servizio di un’azione politica ispirata ai
principi del multilateralismo e fondata sulla legalità
internazionale. Per questo abbiamo detto no alla guerra in Irak
e abbiamo detto sì all’invio dei caschi blu in Libano.
Le cose vanno male a Baghdad, ha dovuto ammettere a denti
stretti il presidente Bush. E il nuovo Segretario alla Difesa,
Gates, ha riconosciuto che gli Stati Uniti, in Iraq, stanno
perdendo la guerra.
Una guerra che si è tradotta in un fallimento politico e
militare. E che è costata a Bush una secca sconfitta nelle
elezioni di medio termine.
Si sono dovute seppellire decine di migliaia di vittime e
gettare al vento miliardi di dollari per riconoscere che la
lotta al terrorismo islamista non può essere condotta con la
sola forza delle armi.
E che per evitare al Medio Oriente la terribile prospettiva,
paventata dal re di Giordania, di tre guerre civili insieme – in
Iraq, in Libano e in Palestina, e senza considerare
l’Afghanistan – la parola deve tornare alla politica.
“Meno truppe, più diplomazia”, ha raccomandato al presidente
Bush la commissione Baker-Hamilton: un’azione
politico-diplomatica a tutto campo, che deve coinvolgere anche
la Siria e l’Iran, i cui comportamenti influiscono pesantemente
sulla crisi libanese e sui conflitti che lacerano la dirigenza
palestinese.
La lezione irachena insegna che la democrazia non può essere
esportata sulla canna dei fucili. La democrazia si diffonde per
“contaminazione positiva”, come sta pazientemente facendo
l’Europa ai suoi confini esterni: verso l’Est europeo, i Balcani,
il Caucaso…
E verso la Turchia: la scommessa di un’integrazione europea più
impegnativa e decisiva, con la quale si può e si deve dimostrare
la compatibilità dell’Islam con la democrazia. E la possibilità
della convivenza, nella stessa casa europea, tra diverse culture
e religioni.
Per questo siamo grati a Benedetto XVI per i gesti e le parole
che hanno scandito la sua visita in Turchia: un viaggio che ha
allontanato l’incubo dello scontro tra civiltà e aiutato il
dialogo interreligioso e interculturale nel nome della pace.
E ci auguriamo che l’Unione Europea abbia la saggezza e la
lucidità di tenere aperte le sue porte alla Turchia.
Siamo peraltro alla vigilia di un anno che può essere decisivo
per il rilancio del processo di integrazione europea, superando
così la crisi seguita ai referendum francese e olandese che
hanno bocciato il Trattato costituzionale europeo.
La presidenza tedesca, nel cinquantenario dei Trattati di Roma,
è un’occasione da utilizzare appieno. E l’incontro fra il
presidente Prodi e il cancelliere Angela Merkel è un preciso
segnale della volontà e dell’ impegno dell’Italia.
L’Europa ha bisogno di riprendere con vigore il processo di
integrazione, pena la sua marginalità e irrilevanza sullo
scenario mondiale. E, proprio di fronte a una crisi di
leadership americana, appare ancora più urgente che l’Europa si
dia gli strumenti e le politiche per riempire un vuoto ed essere
un attore globale.
Ed è responsabilità della sinistra democratica e delle forze
riformiste battersi perché l’Europa – con i suoi valori di
civiltà, tolleranza, democrazia, libertà e con il suo modello
sociale fondato su coesione e diritti – assuma un ruolo centrale
nella governance del mondo. Ed è per concorrere a questo
obiettivo che ci sentiamo impegnati a dare corso alla forte
piattaforma europeista approvata a Porto nel Congresso dei
Socialisti europei.
*****
La politica estera non è stata il solo capitolo nel quale si è
espresso il carattere di svolta dell’azione del Governo di
centrosinistra.
Gli stessi caratteri di innovazione politica gli italiani hanno
colto nel decreto Bersani-Visco, giustamente compreso da una
vasta opinione pubblica come un provvedimento finalizzato alla
liberazione di risorse e di opportunità per consumatori e
cittadini e di modernizzazione del Paese: una modernizzazione
della quale è parte integrante e principio costitutivo una vera
e severa lotta all’evasione fiscale.
Non a caso, resistenze e proteste, che pure ci sono state e
assai aspre, non solo non hanno incontrato solidarietà da parte
dell’opinione pubblica nel suo insieme, ma hanno anzi suscitato
la preoccupazione che potessero interrompere il percorso di
innovazione avviato dal Governo.
Andrete fino in fondo? O vi fermerete e magari tornerete
indietro per non ledere interessi corporativi? Questa è la
domanda che ci siamo sentiti rivolgere nel mese di luglio.
E’ come se il Paese avvertisse che è solo liberando energie,
capacità e opportunità che l’Italia potrà rimettersi in moto,
liberandosi di particolarismi, egoismi corporativi,
segmentazione degli interessi, guerra di tutti contro tutti.
Insomma: per salvarsi dalla decadenza e dal declino, l’Italia ha
bisogno di riforme incisive e profonde all’insegna del primato
dell’interesse generale.
In realtà la Legge Finanziaria presentata dal Governo è
tutt’altro che di ordinaria amministrazione, ed è improntata a
una netta discontinuità con le politiche di bilancio precedenti.
Nella passata legislatura, la politica economica di Berlusconi e
Tremonti ha dato all’Italia: la crescita zero, mentre l’economia
mondiale conosceva la fase di sviluppo più impetuoso della
storia recente; il dissesto dei conti pubblici, con tre punti di
pil di spesa corrente in più; l’azzeramento dell’avanzo primario
e la ripresa del debito; e un impressionante aumento di
precarietà nel lavoro e disuguaglianze nei redditi.
Al contrario, la Finanziaria 2007 si propone di aprire un ciclo
nuovo che consenta all’Italia di ritrovare alti livelli di
crescita.
E lo sforzo – qui sta la differenza con politiche neoliberiste
di puro aggiustamento finanziario – è tenere insieme il
risanamento dei conti pubblici con la ripresa dello sviluppo e
una decisa azione per l’equità sociale.
Basterà ricordare che si vuole riportare il disavanzo di
bilancio, che oggi con la sentenza sull’Iva e l’emersione del
debito delle ferrovie sfiora il 6 per cento, sotto la soglia
europea del 3% in un solo anno.
Uno sforzo che consente di dedicare più risorse al rilancio
degli investimenti e della crescita, mettendo a disposizione
delle imprese una quantità di risorse superiore a tutte le
Finanziarie precedenti.
Per la prima volta dopo cinque anni il Mezzogiorno torna ad
essere una priorità vera dell’azione di Governo, con politiche e
risorse dedicate.
Con l’utilizzo del TFR inoptato presso un fondo Inps, si sono
assicurate le risorse per un consistente programma di
investimenti infrastrutturali.
Dopo anni di tagli si riprende ad investire anche nella cultura,
nella produzione intellettuale, nel patrimonio artistico e
ambientale.
L’impegno a contenere la spesa pubblica non ha, al tempo stesso,
impedito di prevedere in Finanziaria risorse per l’avvio di un
Piano nazionale di asili nido, la istituzione del Fondo per le
persone non autosufficienti, il rifinanziamento della legge 328
per il welfare locale, l’istituzione del Fondo per
l’integrazione degli immigrati e altre misure di sostegno alle
famiglie.
Così come sono garantite le risorse per i rinnovi contrattuali
del pubblico impiego e per realizzare finalmente la
stabilizzazione dei tantissimi insegnanti precari della scuola.
Insomma accanto al risanamento e allo sviluppo, l’equità: e
infatti questa Finanziaria avvia una redistribuzione di reddito
a vantaggio prima di tutto di chi ha di meno, con una
rimodulazione fiscale ispirata a equità sociale e con un impegno
straordinario di riduzione dell’enorme massa di fisco eluso o
evaso.
Peraltro nel corso dell’iter parlamentare, la manovra è stata
corretta e perfezionata in molti aspetti, anche raccogliendo
nostre precise richieste.
Maggiori risorse sono state garantite a settori strategici, come
la formazione, l’università e la ricerca, la sicurezza dei
cittadini.
Il necessario contenimento della spesa pubblica è stato
rimodulato, in modo tale da assicurare a Enti Locali e Regioni
le risorse per politiche sociali e servizi essenziali.
Sono state accolte buona parte delle richieste formulate dal
mondo del lavoro autonomo: dalle norme sull’apprendistato a
quelle sullo scontrino fiscale, dagli studi di settore alla
successione d’impresa, dal TFR alla riduzione dei contributi
INAIL.
E’ stata effettuata un’attenta verifica degli effetti della
rimodulazione fiscale, tenendo maggiormente conto dei nuclei
monoparentali e degli effetti prodotti su tutti i redditi dalle
addizionali locali e prevedendo di utilizzare il maggior
incremento di gettito derivante da recupero di evasione per una
riduzione della pressione fiscale già dal 2008.
Opereremo ancora in questi ultimi giorni di esame parlamentare
per rendere la legge Finanziaria più efficace e chiara nei suoi
obiettivi, consapevoli che realizzarli – e in particolare
ridurre il deficit al di sotto del 3% e portare la crescita del
PIL al 2% - è condizione per restituire all’Italia e agli
italiani fiducia e opportunità.
*****
La questione politica che dobbiamo porci è allora la seguente:
se questo è l’impianto della manovra, un impianto ambizioso e
robusto, perché una Finanziaria così impegnativa non ha raccolto
l’apprezzamento e il consenso necessario, ma anzi ha suscitato
manifestazioni di disagio e di protesta, incrinando il rapporto
del Governo con il Paese?
Il primo segnale di difficoltà nel nostro rapporto col Paese lo
abbiamo registrato con l’indulto, in sé necessario, ma che è
stato percepito da una larga maggioranza degli italiani come un
provvedimento di sola emergenza, rischioso per la sicurezza dei
cittadini e incapace di rimuovere le cause della stessa
emergenza carceraria.
Se lo stesso indulto fosse stato accompagnato da provvedimenti
incisivi e strutturali per la sicurezza, per l’abbattimento
radicale dei tempi della giustizia, per la costruzione in tempi
certi di nuove carceri, sarebbe stato accolto probabilmente con
ben altro spirito.
Ma le difficoltà più gravi, le abbiamo registrate con la
predisposizione, la presentazione e la discussione parlamentare
della Finanziaria.
E’ stato il presidente Ciampi il primo a suonare l’allarme:
attenti, disse subito, va reso più chiaro il senso di una
missione per il Paese, perchè non ci si può impegnare in una
manovra straordinaria di 35 miliardi di euro – una manovra che
finisce per colpire innumerevoli grandi e piccoli interessi
particolari – se il Paese non ne comprende e condivide il
significato complessivo e generale.
Il 2 dicembre, il centrodestra ha portato a Roma, in piazza San
Giovanni, centinaia di migliaia di persone, dando vita alla
manifestazione popolare più vasta della sua storia e confermando
di mantenere un consenso vasto in strati significativi
dell’elettorato.
Noi abbiamo guardato a quella manifestazione col rispetto che si
deve ad una espressione di democrazia e ci siamo sforzati di
cogliere le ragioni di disagio di quanti vi hanno partecipato.
Non siamo tuttavia riusciti a cogliere, non solo negli slogan
della piazza, ma soprattutto nei discorsi dal palco, una
proposta che andasse oltre la pura protesta.
Non è un caso, se l’unica componente moderata del centrodestra,
l’Udc di Casini, si sia sentita costretta ad organizzare
un’altra manifestazione, ben distinta e ben distante, non solo
geograficamente, da quella di Roma. Una distinzione non
contingente, ma che segna invece una rottura politica nel centro
destra che da oggi si manifesta con due diverse modalità di
intendere e praticare l’opposizione, che richiamano sempre più
due diverse prospettive politiche per la riorganizzazione del
centrodestra e dell’intero sistema politico.
Il problema non è dunque l’opposizione, che a pochi mesi dalla
sconfitta elettorale resta ben lontana dalla capacità di
esprimere un’alternativa credibile al nostro Governo.
Il problema è, se mai, il senso comune che si è diffuso in una
parte larga e varia della società, secondo cui questa
Finanziaria si esaurirebbe solo in un inasprimento fiscale per
tutti, senza ritorni e benefici per i cittadini.
E’ questa lettura il filo che lega la manifestazione di Piazza
S. Giovanni alle proteste che sono venute da categorie
produttive e professionali, così come da settori di lavoro
dipendente.
Un malumore che si è manifestato perfino tra lavoratori
dipendenti che pure trarranno vantaggio dalla rimodulazione
fiscale a favore di chi ha un reddito inferiore ai 40.000 euro
annui.
E si aggiunga ancora che in settori da anni esposti alla
precarietà – i giovani lavoratori parasubordinati, oppure il
mondo della scuola e dell’Università – sono maturate aspettative
più alte di quanto la Finanziaria abbia soddisfatto.
Il problema è, dunque, imprimere una significativa e sensibile
correzione di rotta all’azione di governo e all’iniziativa delle
forze politiche, partendo da una realistica constatazione di
fatto: l’Italia da dieci anni cresce di un punto al di sotto
della media europea e di 3-4 punti al di sotto della media
mondiale.
E’ un paese nel quale tutti i settori della società e dello
Stato sono in sofferenza: dalla sanità alla giustizia, dalla
sicurezza alla scuola, dalle infrastrutture alla ricerca, dagli
enti locali all’assistenza, non c’è settore che non si
percepisca come sottofinanziato e non domandi maggiori risorse.
D’altra parte il vero differenziale è l’enorme debito pubblico
accumulato. Mentre, infatti, la percentuale di prodotto interno
lordo che l’Italia destina ai vari settori di spesa pubblica è
nella media europea, l’incidenza di una spesa per interessi sul
debito è quasi il doppio dell’area dell’Euro.
Insomma: senza un radicale mutamento degli indirizzi della
politica economica, della spesa sociale e della finanza
pubblica, l’Italia non ce la fa.
Senza un rilancio della crescita di almeno il 2% all’anno, sono
impensabili sia una politica di investimenti, sia una
significativa redistribuzione orizzontale, da un settore
all’altro. Né è pensabile un ulteriore aggravio fiscale sul
settore privato, dato che anche la pressione fiscale, nel nostro
paese, sta raggiungendo livelli critici.
* * * *
La verità è che il vero problema del Paese è il grave ritardo,
accumulato negli anni, nella modernizzazione complessiva del
nostro sistema economico e sociale, causa prima del vistoso
rallentamento del nostro tasso di sviluppo.
L’Euro ci ha protetto dal rischio della crisi finanziaria e
valutaria, ma non ci garantisce la crescita. Anzi, sottrae in
modo definitivo proprio i due principali strumenti che avevano
alimentato la crescita drogata degli anni ‘80: la svalutazione
competitiva e il finanziamento pubblico in deficit.
E, dunque, serve un cambio di passo, una forte innovazione e
discontinuità nell’aggredire le fragilità strutturali del Paese.
Dobbiamo intanto procedere con determinazione sul binario del
risanamento, per liberarci del cappio del debito, che ci
costringe ogni anno a bruciare una percentuale di reddito
nazionale doppia a quella degli altri paesi europei per tassi di
interesse, anziché aumentare la spesa sociale, gli investimenti
e/o ridurre la pressione fiscale.
Ma con la stessa determinazione dobbiamo avanzare sull’altro
binario, quello delle riforme, in due grandi direzioni:
competitività del sistema produttivo e qualità, efficienza,
produttività del sistema pubblico, a cominciare dai quattro
macro comparti di spesa: previdenza, sanità, pubblico impiego,
enti locali.
Come ho già più volte detto, non si tratta tanto di “tagliare”,
perchè non ci sono margini per significativi tagli quantitativi
alla spesa.
Si tratta, invece, di riqualificare, risanare, razionalizzare,
ristrutturare.
Bisogna fare di più e di meglio con le stesse risorse.
Il che, spesso, è molto più difficile che tagliare.
Per fare alcuni esempi: con la stessa quota di pil, che è in
linea col resto d’Europa, il comparto giustizia deve riuscire a
portare la durata media delle cause civili ad un anno dai dieci
attuali, e deve arrivare a questo obiettivo entro tempi certi.
La quota del PIL dedicata al comparto sicurezza, per fare un
altro esempio, è superiore alla media europea. Sarà difficile
farla crescere ancora in modo significativo, senza affrontare in
modo non elusivo il nodo della razionalizzazione delle forze di
polizia.
La quota di PIL che l’Italia globalmente destina alla ricerca è
scandalosamente bassa. Ma non lo è la quota di spesa pubblica,
che sconta invece gravi inefficienze nell’organizzazione degli
enti pubblici di ricerca. Difficile farla crescere, la quota di
spesa pubblica, senza procedere ad una coraggiosa
riorganizzazione di enti e strutture e ancor più procedure e
mentalità, come ha indicato di voler fare il Ministro Mussi.
Spendiamo meno di quanto accada negli altri paesi europei per
l’infanzia, per la famiglia, per la non-autosufficienza. Mentre
spendiamo di più per la previdenza. E abbiamo bisogno di creare
un sistema moderno di ammortizzatori sociali che consenta di
passare dalla tutela del posto di lavoro a quella del lavoratore
sul mercato. Tutti obiettivi che richiedono una diversa
allocazione delle risorse.
Così come non c’è settore del comparto produttivo che non possa
e non debba ragionare in termini di liberalizzazione,
modernizzazione, efficientizzazione: dall’industria al credito,
dalle professioni al commercio, dai trasporti all’energia. E
anche qui si tratta di capire se il sistema paese intende
affrontare la sfida della competitività, o preferisce la china
decadente della difesa ciascuno della propria insostenibile
rendita di posizione.
E’ su questi cardini che deve ruotare la cosiddetta “fase 2”.
Al di là di questa definizione giornalistica, quel che a noi
preme è che, approvata la Finanziaria, si vari subito un’”Agenda
di riforme” che incida sulle fragilità strutturali del Paese e
consenta di dare alle stesse misure della Finanziaria quella
efficacia e produttività necessarie a realizzare gli obiettivi
di crescita che il Governo si è proposto.
Per questo pensiamo che fin dalle prime settimane del 2007 si
debbano istituire tavoli di confronto con le parti sociali per
affrontare cinque grandi priorità: le pensioni e la
sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale; il mercato
del lavoro e il sistema degli ammortizzatori sociali;
l’efficienza e la produttività delle pubbliche amministrazioni;
le liberalizzazioni e le misure per la competitività; il
federalismo fiscale.
E intorno a questa priorità promuovere un “patto per la
produttività, la crescita e il lavoro”.
Per realizzare questi obiettivi, la politica deve introdurre un
elemento di innovazione e discontinuità, introiettando come
parametro dei propri comportamenti la celebre esortazione
kennediana: “Non chiedetevi cosa il Paese può fare per voi, ma
cosa voi potete fare per il Paese”.
Ridare slancio al Paese, creare condizioni di crescita e
efficienza in ogni settore, offrire a ciascuno l’opportunità di
scommettere sul proprio talento, sulla propria voglia di fare.
In una parola dare il senso di una sfida comune. Così possiamo
restituire ad una società frammentata il senso di
un’appartenenza, di un comune destino, di un essere Nazione.
Tutto questo però, non si realizza senza una forte e convinta
“condivisione” della società.
Ed è esattamente questa la criticità emersa nella Finanziaria.
Forse non abbiamo riflettuto a sufficienza su quali e quanti
guasti abbia prodotto la ideologia deregolativa della destra, la
cui esaltazione degli interessi particolari e corporativi ha
finito per offuscare e smarrire il valore degli interessi
generali.
E paradossalmente anche la dialettica tra riformisti e radicali
– in sé del tutto fisiologica in una coalizione plurale di
centrosinistra – ha finito per assecondare una tendenza alla
frammentazione degli interessi e delle domande, indebolendo la
credibilità di un progetto capace di tenere unito il Paese.
Insomma, quel che pesa nell’azione del governo e della
maggioranza non è tanto un deficit di comunicazione – che pure
c’è stato e c’è – ma la difficoltà di promuovere e realizzare
una “condivisione” fondata su un riconoscimento del ruolo della
società e dei suoi soggetti.
C’è un filo che lega la manifestazione degli artigiani di
Venezia, il malessere degli operai di Mirafiori, la protesta dei
ricercatori dell’Università.
E questo filo è un sentimento di non riconoscimento che ciascuno
di quei soggetti ha vissuto.
Per artigiani, commercianti, piccoli imprenditori è il mancato
riconoscimento della fatica quotidiana di investire, gestire
un’azienda, competere con concorrenti terribili (la Cina),
districarsi nei meandri di una burocrazia sorda e ostile.
Per il mondo dell’Università è il mancato riconoscimento di chi
dopo anni di studio, di attività didattica, di ricerca continua
a vivere nella precarietà di un lavoro mai stabile, di una
remunerazione spesso umiliante, di una carriera mai compiuta.
Per gli operai di Mirafiori è il disagio di una vita quotidiana
segnata da fatica fisica – la catena di montaggio esiste ancora
per molti – scarsa retribuzione, incertezza occupazionale, a cui
si aggiunge la frustrazione di vedere il proprio lavoro manuale
non riconosciuto e sospinto al fondo della gerarchia sociale.
Si aggiunga che temi politicamente significativi – come la
sostenibilità delle pensioni e il funzionamento del pubblico
impiego – da troppi anni vengono evocati in termini puramente
punitivi, senza che mai si renda chiaro ai destinatari perché e
come si vogliono realizzare riforme incisive.
Quando un disagio si manifesta, una classe dirigente non gira le
spalle, né rivolge lo sguardo altrove.
Per questo ho ritenuto che fosse dovere del Segretario del
principale partito della coalizione di governo intraprendere –
in queste settimane al Nord, a gennaio al Sud – un viaggio nei
luoghi simbolici dell’Italia che lavora e produce.
Per andare ad ascoltare, capire, ragionare e discutere.
E soprattutto per dare riconoscimento a persone, ceti, soggetti,
mondi che non si sentono riconosciuti e rappresentati da un
sistema politico e istituzionale che vivono come distante, sordo
e ostile.
Insomma serve anche qui un’innovazione di metodo di lavoro, di
stile politico, che è anche discontinuità di messaggio al Paese.
Gli italiani devono essere aiutati a non avere paura del
cambiamento. E solo una politica che non ne abbia paura può
farlo. Ma lo può fare soprattutto una politica capace di
ascoltare la società, di riconoscerne meriti e valori, di non
deludere a domande e aspettative. Una politica che si guardi dal
rischio di un riformismo dall’alto e senza popolo e, invece,
sappia ricostruire con i cittadini un rapporto di fiducia e di
condivisione.
In questo modo dobbiamo dare agli italiani la precisa sensazione
che abbiamo raccolto il messaggio critico venuto in queste
settimane e lo abbiamo tradotto in un impegno rinnovato per il
cambiamento del Paese.
*****
Le difficoltà ci parlano, insomma, di una crescente estraneità
dei cittadini alla vita politico-istituzionale.
E come potrebbe non essere così di fronte ad un Parlamento in
cui seggono rappresentanti di 21 partiti, ulteriormente
frammentati in correnti e sottocorrenti che enfatizzano ancor di
più la frammentazione di ceto e territorio?
Come potrebbe non essere così di fronte ad una politica che
troppo spesso si manifesta non già impegnata a scegliere, a
costruire, a fare, apparendo invece spesso dispersa nel
chiacchiericcio inconcludente, nell’esternazione estemporanea,
nella quotidiana ricerca di una piccola visibilità fine a se
stessa ?
Non può davvero essere sottovalutato il solco che si va
allargando tra politica e società: una distanza che se non
colmata con una forte iniziativa democratica rischia di divenire
facile terreno per derive qualunquiste, plebiscitarie,
antipolitiche.
Peraltro è già stato così dieci anni fa, quando Berlusconi e il
suo leaderismo populistico riempirono il vuoto apertosi con la
crisi profonda delle istituzioni e dei partiti della prima
repubblica.
Non si pensi che quel rischio sia ormai alle nostre spalle per
il solo fatto che Berlusconi ha deluso e ha perso le elezioni.
Proprio quel che è accaduto in Italia in queste settimane – e
anche altrove, come in Olanda dove hanno prevalso le forze
populistiche di destra e di sinistra – ci dice che occorre una
forte e immediata iniziativa per restituire ai cittadini una
politica in cui possano riconoscersi e avere fiducia.
La transizione istituzionale da troppo tempo irrisolta; il
ritorno alle logiche proporzionali indotto dalla nuova legge
elettorale; la divisione che si è prodotta nel centrodestra con
l’UDC che punta apertamente a un nuovo sistema elettorale e
politico: tutto ciò sollecita ancor di più una riorganizzazione
profonda del sistema politico e istituzionale, un federalismo
compiuto, una riforma della politica che la renda trasparente e
vicina ai cittadini, una democrazia che funzioni, un bipolarismo
mite.
Il Paese ha bisogno di stabilizzare definitivamente un sistema
che ponga al centro la competizione tra credibili alternative di
governo, un sistema che consenta a chi vince di governare,
potendo contare sull'accumulazione di energia coesiva necessaria
ad intervenire in modo incisivo sui tanti nodi che paralizzano
l'Italia.
Per questo, dopo che gli italiani hanno respinto con il
referendum lo strappo costituzionale della destra, dobbiamo
rilanciare il confronto sulle riforme istituzionali ed
elettorali.
Questa esigenza oggi si è fatta urgente, su tre versanti: la
forma di Stato, con i necessari aggiornamenti alla riforma del
Titolo V e la realizzazione del federalismo fiscale; il
bicameralismo, con l’improrogabile necessità di riforma del
Senato; il rafforzamento, in un quadro di garanzie e
contrappesi, dei poteri del premier.
Le commissioni Affari Costituzionali di Camera e Senato hanno
concordato un programma di lavoro che dovrebbe portare entro
marzo a proposte legislative, mentre il ministro Chiti ha
avviato una ricognizione degli orientamenti di tutte le forze
politiche.
Siamo, dunque, pronti a discuterne in Parlamento, per costruire
un percorso di riforme che possa raccogliere il consenso di un
largo schieramento parlamentare, ben oltre la maggioranza di
governo.
Allo stesso modo chiediamo con forza e determinazione la
modifica della legge elettorale che tutti – anche le destre –
riconoscono ormai essere un ostacolo al corretto funzionamento
di una moderna democrazia, come dimostra anche l'adesione di
molti autorevolissimi esponenti dell'opposizione, che nella
scorsa legislatura votarono la riforma Calderoli, all'iniziativa
referendaria di abrogazione parziale di quella stessa legge.
Per noi, il sistema ottimale per l'Italia resta il collegio
uninominale a doppio turno. Disponibili, senza pregiudizi, a
discutere anche soluzioni diverse, purché rafforzino il
bipolarismo e la coesione delle coalizioni e recuperino il
necessario radicamento territoriale degli eletti.
Se così non dovesse essere, c'è il referendum: e lì decideranno
i cittadini.
*****
Rilanciare l'azione di governo con incisive riforme economiche e
sociali e avviare il confronto sulle riforme costituzionali ed
elettorali sono due condizioni necessarie per affrontare il
"problema italiano". Ma sappiamo bene che non sono sufficienti.
Alfredo Reichlin ci sollecita continuamente a non limitarci ad
una lettura riduttivamente economicistica.
Dietro l'affanno economico, dietro il disagio sociale, c'è
qualcosa di più profondo e più serio, che ha a che fare con la
stessa identità storico-civile del nostro Paese.
Del resto, le stesse difficoltà economiche dinanzi alle quali si
trova l'Italia, proprio per il loro carattere strutturale non
possono avere una soluzione solo economica.
Dopo cinque anni di destra l’Italia è, infatti, un paese a
rischio: perché il suo sistema produttivo è in affanno; perché
certezze di vita, di lavoro, di reddito sono divenute precarie
per molti, in particolare i giovani, le donne e le persone sole;
perché cresce la difficoltà a tenere unito un Paese, che non
solo continua a vivere un’irrisolta questione meridionale, ma
scopre di avere nella pancia anche una questione settentrionale;
perché il sistema politico e istituzionale è venuto riducendo
ulteriormente la capacità di rappresentare la società italiana e
di affermare il primato degli interessi generali.
E tutto questo ha sollecitato frammentazioni corporative di ceto
e di territorio, ha acuito il senso di estraneità dei cittadini
alla vita politica e istituzionale, e soprattutto ha indebolito
i fattori di coesione indispensabili perché una comunità si
senta nazione.
Nonostante ciò l’Italia è un “grande paese”, ricco di risorse,
professionalità, competenze, lavoro, tecnologie, capitali.
Ancora in queste settimane il Rapporto CENSIS ci parla di una
ripresa economica fondata su creatività, innovazione, apertura
ai mercati, nuove managerialità.
Ma, appunto, questo rende ancor più urgente una guida politica,
forte, autorevole, riconosciuta, in grado di rivolgersi al Paese
con credibilità.
Serve la messa in campo di nuove energie coesive che spingano la
politica, la classe dirigente nel suo insieme e in definitiva la
società italiana tutta, a trovare il senso, la passione, la
determinazione a perseguire l'interesse generale. E a
comprendere lo stesso interesse generale non come mortificazione
ed appiattimento mediocre, ma come valorizzazione del talento e
del merito, visti come prezioso bene collettivo: tutto questo
non può essere frutto di una politica economica, ma ne è semmai
il presupposto.
Il "problema italiano" è ancora, per dirla con Gramsci, quello
di una "riforma intellettuale e morale", potremmo dire di una "autoriforma
civile", che dia al Paese la spinta necessaria a non tornare
"espressione geografica", ma a ritrovarsi come Nazione tra le
nazioni d'Europa.
Una riforma morale e politica che ripensi l’Italia, riformi le
sue istituzioni e la sua costituzione materiale, ricollochi il
Paese nei nuovi orizzonti dell’integrazione europea e della
globalizzazione, plasmi una nuova identità nazionale costruendo
coesione sociale, spiriti civico e senso di appartenenza.
Ci sono momenti in cui una nazione è chiamata a ripensare sé
stessa, il suo destino, quel che vuole essere.
Penso al New deal con cui Roosevelt restituì forza, dignità e
coesione ad un’America sprofondata nella depressione del ’29.
Penso al modo in cui una Germania devastata materialmente e
travolta moralmente dalla follia hitleriana seppe ricostruirsi
come nazione libera e democratica.
Penso a come la Francia, che nella decolonizzazione visse il
collasso della sua identità imperiale e del suo assetto
istituzionale, seppe uscire dalla crisi della Quarta Repubblica.
Penso a Felipe Gonzales che guida la Spagna fuori dalla notte
del franchismo nella democrazia e ne ridisegna il profilo di
nazione giovane e moderna.
In ciascuna di quelle vicende decisiva è stata la funzione
nazionale assolta da una grande forza politica – talora
moderata, talora progressista – capace di proporre una visione,
indicare delle sfide, offrire una prospettiva e un progetto in
cui ciascun cittadino potesse identificarsi e proiettare la vita
propria e dei propri figli.
Ecco: oggi l’Italia è di fronte ad un passaggio non meno alto e
impegnativo.
E serve una forza politica che abbia l’ambizione e la forza
ideale e morale di assolvere ad una funzione nazionale di guida.
La destra non è in grado di farlo perchè ha dimostrato in questi
anni di non avere la visione ideale, il progetto culturale e
politico, la classe dirigente necessaria.
Tocca oggi alla sinistra, al riformismo, alle forze di progresso
restituire all’Italia identità, vocazione, senso di sé e del suo
futuro.
Questo è l'orizzonte ideale, questa la missione storica che
assegniamo al "Partito nuovo" che vogliamo costruire, il Partito
democratico dell'Ulivo: un nuovo soggetto politico, capace di
guidare l’Italia in un passaggio storico della vita nazionale.
Davvero si banalizza la sfida che sta di fronte a noi se si
guarda al progetto del Partito Democratico, unicamente come ad
un’opera di semplificazione del sistema politico.
C’è anche questo obiettivo naturalmente. Ma di ben altro
spessore storico-politico e di ben altra densità culturale sono
le ragioni che ci portano a misurarci con il progetto della
trasformazione dell’Ulivo nel Partito Democratico.
Così come sarebbe riduttivo pensare di costruire un partito
nuovo su misura di questo o quel leader.
Semmai, la nostra ambizione, come generazione che si è trovata
in questo tormentato passaggio di secolo e di millennio alla
guida di grandi e difficili processi di rinnovamento e perfino
di rivolgimento politico, è di lasciare alle generazioni nuove,
a quelle che avanzano dietro di noi, non solo i detriti di una
transizione inconclusa, ma anche le fondamenta almeno, le
colonne portanti, di una costruzione nuova.
******
La condizione di riuscita di questa nostra impresa è un vero
incontro di culture riformatrici: un incontro che proprio per
essere vero deve pensarsi al futuro e non al passato.
E il futuro – ma per molti aspetti già oggi il presente – ci
interroga con sfide nuove, dinanzi ai mutamenti intervenuti
nell’ultimo quindicennio nella società italiana, che hanno
radicalmente modificato tutte le principali variabili intorno a
cui la sinistra e le forze di progresso hanno costruito le loro
identità e le loro esperienze.
Il passaggio dal fordismo al ciclo di produzione informatico ha
mutato il lavoro, nella sua quantità, qualità, distribuzione e
nella sua stessa percezione valoriale.
Lo sviluppo produttivo è chiamato a fare sempre di più i conti
con la “sostenibilità” ambientale, energetica, sociale.
Globalizzazione, interdipendenza dei mercati, integrazione
europea hanno messo in causa lo Stato nazione e le sue capacità
regolative e redistributive.
I mutamenti demografici rimodellano profilo e volto del nostro
Paese, facendo emergere nuove criticità – l’infanzia, i giovani,
la terza età – e mettendo la società italiana di fronte ai
dilemmi e alle inquietudini della multietnicità.
Pulsioni populistiche, leaderistiche, separatiste ci parlano di
una crisi della democrazia rappresentativa che sollecita a
ripensare istituzioni, forme della democrazia e loro rapporto
con i cittadini.
Insomma, sono i tratti intorno a cui si è costruita l’esperienza
della sinistra e del riformismo nel Novecento ad essere messi in
discussione.
Per questo abbiamo bisogno di un "pensiero nuovo", capace di
leggere e di raccogliere le sfide di un secolo nuovo.
Un pensiero nuovo non è solo l'assemblaggio di pensieri vecchi:
non basta, anzi non serve, semplicemente giustapporre le diverse
tradizioni del riformismo italiano. Se dobbiamo far incontrare
quelle radici, è perché insieme dobbiamo mettere in campo nuove
idee e nuove esperienze, nuovi alfabeti e nuovi paradigmi.
Nasce da qui la spinta all'incontro tra i riformismi.
Quando ci si pensa autosufficienti ci si divide, quando si
avverte con sofferenza il proprio limite, si cerca in altri il
proprio completamento. Avviene nella vita e anche nella
politica.
Peraltro stanno alle nostre spalle le due ragioni principali su
cui si è fondata, lungo più di un secolo, la divisione e la
competizione tra le culture riformiste e i partiti che le
rappresentavano.
Sì perché divisioni che hanno segnato la vicenda dei riformismi
italiani nel ‘900 affondavano le loro radici in letture diverse
della società che conducevano a proposte politiche alternative.
E, per di più, nel secolo delle ideologie totalizzanti, le
appartenenze di campo rendevano ancor più rigide e aspre le
competizioni.
Ma oggi il muro di Berlino non c’è più. E l’enorme sommovimento
politico prodotto dalla sua caduta, ha condotto le culture
riformiste italiane e i suoi partiti a trasformarsi e a
ritrovarsi unite nell’Ulivo e lì a elaborare una comune lettura
della società italiana e un comune progetto politico per
l’Italia.
Ed è proprio in virtù dell’esperienza dell’Ulivo che possiamo
puntare a unire oggi quel che la storia ieri ha diviso.
Ci sono, dunque, ragioni forti e valori condivisi che consentono
di credere nel progetto del Partito Democratico.
Insomma: serve un riformismo capace di far incontrare i valori
della sinistra – pace, democrazia, libertà, solidarietà,
uguaglianza – con l’alfabeto del nuovo secolo.
Il multilateralismo per una governance della globalizzazione che
affermi diritti dell’uomo, democrazia, liberazione da ogni forma
di oppressione.
L’integrazione europea per un Europa che sia il luogo e lo
spazio in cui costruire il futuro dell’Italia.
Il sapere e la conoscenza per offrire ad ogni persona più
opportunità, scommettendo sul talento, sul merito, sulla
capacità.
Il lavoro che, tanto più nelle forme flessibile e mobili di
oggi,ha bisogno di essere riconosciuto, valorizzato e restituito
alla sua manifestazione di creatività, ingegno e sapere umano.
La sostenibilità, per perseguire uno sviluppo per l’uomo e
rispettoso della natura.
E ancora: la laicità come eguaglianza dei diritti e certezza per
ogni persona di praticare le proprie scelte di vita nella
responsabilità e come valore che deve ispirare la ricerca di
soluzioni condivise a inquietudini e domande su cui si
interrogano credenti e non credenti.
Le pari opportunità per promuovere l’accesso al sapere, al
lavoro, alle istituzioni, alla politica per ogni donna italiana.
La multiculturalità per realizzare integrazione, riconoscimento,
relazione tra diritti e doveri.
Sono i grandi valori intorno a cui possono incontrarsi il
riformismo socialista, l’umanesimo cristiano, il progressismo
liberaldemocratico, le nuove culture dell’ambientalismo e della
parità di genere. Valori che devono, a maggior ragione,
connotare un partito che voglia rappresentare la pluralità di
riformismi.
*****
Naturalmente il dibattito di questi mesi ci dice che ci sono con
la Margherita e con gli altri interlocutori del Partito nuovo,
questioni aperte. Discutiamone apertamente, perché potremo
superare le nostre diversità di partenza se apriamo un confronto
diretto e ravvicinato, sforzandoci insieme di guardare al futuro
e non al passato.
Una prima questione aperta è la collocazione internazionale del
Partito Democratico.
Un partito deve pensarsi in un orizzonte non solo nazionale, ma
mondiale ed europeo e collocarsi entro un sistema di relazioni
che gli consenta di svolgere un ruolo sulla scena internazionale
e incidere nelle scelte che lì si operano.
Ora, la storia del nostro continente ci consegna uno scenario
politico nel quale i partiti socialisti e socialdemocratici
costituiscono di gran lunga la famiglia riformista europea più
grande. E chi abbia l’ambizione – come il Partito Democratico –
di concorrere a rinnovare il riformismo europeo e unirlo, non
può in ogni caso prescindere da quella famiglia.
In questo sta il valore del Congresso del PSE di Porto, dal
quale è venuto un sostegno esplicito e convinto al progetto del
Partito Democratico, considerato una sfida storica per l’Italia,
ma anche una scelta che può cambiare la politica europea e i
suoi assetti. E un contributo a rinnovare e unire il riformismo
europeo.
A Porto non si doveva decidere la collocazione europea e
internazionale del futuro Partito Democratico. Una scelta che si
deve discutere in Italia.
Ma proprio per questa discussione e per le decisioni da
assumere, non è irrilevante sapere che la più grande famiglia
riformista europea guarda al nostro progetto con simpatia e
favore ed è disposta ad accompagnarne il successo aprendo le
porte del PSE al Partito Democratico.
Nelle parole calorose di Rasmussen, così come nel sostegno
esplicito manifestato in questi mesi, e ancora a Porto, da tutti
i principali dirigenti socialisti europei c’è la consapevolezza
di dover perseguire con determinazione una coraggiosa
innovazione delle loro esperienze, aprendosi al confronto e
all’incontro con altre culture riformiste del continente.
E in questa chiave appare chiaro quanto la modifica statutaria –
con cui il PSE allarga suoi orizzonti a partiti “progressisti e
democratici” – non sia una scelta burocratica, ma di forte
valore politico. E francamente appare curioso che chi in Italia
e anche nel nostro partito invoca la centralità del socialismo
europeo – magari per contestare la scelta del Partito
Democratico – non abbia ritenuto di riconoscere il valore di
quella innovazione.
D’altra parte è noto come i partiti socialisti e
socialdemocratici di oggi non siano più da tempo i partiti della
II Internazionale, ma abbiano maturato via via una evoluzione
politica e culturale che ha fatto loro assumere il profilo di
grandi forze di centrosinistra, dentro cui si ritrovano le molte
sensibilità che si ritrovano in Italia nell’Ulivo.
Tony Blair ha rifondato il laburismo inglese aprendolo
all’incontro con il socialismo liberale; Gonzales ieri e
Zapatero oggi sono i leader di un socialismo spagnolo che ha
assunto i valori della modernità; le socialdemocrazie scandinave
hanno ripensato il loro welfare per realizzare equità e
progresso nella società flessibile; Segolene Royal è
l’espressione di un socialismo francese che va oltre la sua
storica cultura colbertista e che Mitterrand rifondò a Epinay
unificando socialisti, radicali, repubblicani e cristiano
sociali; i socialisti portoghesi hanno promosso “Nuove
Frontiere” un rassemblement che si ispira all’Ulivo. E i
socialdemocratici austriaci hanno costituito il gruppo
parlamentare insieme a personalità liberali elette nelle loro
liste.
E anche sul piano mondiale l’Internazionale Socialista è da
tempo un’organizzazione aperta e plurale che, accanto a partiti
socialisti e socialdemocratici, vede un’ampia presenza di
partiti progressisti e democratici di diversa ispirazione.
E sia il PSE, sia l’IS intrattengono da tempo con il Partito
Democratico americano un rapporto strutturato di collaborazione
in via di costante intensificazione, come dimostra la presenza
di Howard Dean a Porto.
Sappiamo bene che questa nostra impostazione non registra ancora
una condivisione dei nostri amici della Margherita.
Noi non chiediamo a chi viene da un’altra storia di riconoscersi
nella socialdemocrazia. Chiediamo di essere partecipi di un
comune impegno con la famiglia socialista per aprire una
stagione nuova del riformismo anche in Europa.
Discutiamone, ma senza pregiudizi e soprattutto sulla base di un
approccio politico, e non ideologico.
*****
Una seconda questione aperta è quella della laicità o, detto in
modo più articolato, del rapporto tra le diverse visioni
etico-religiose e la laicità delle istituzioni, dinanzi
all'emergere di nuove questioni antropologiche.
Sappiamo tutti che su temi etici e civili è cresciuta nella
società una sensibilità molto più attenta. Più attenta a che
ogni persona possa praticare liberamente le proprie scelte di
vita. Ma anche più attenta a che la libertà non sia mai
disgiunta dalla responsabilità.
E noi a questa duplice sensibilità abbiamo il dovere di dare
risposta.
Dobbiamo scegliere quale metodo adottare: possiamo rispondere in
termini identitari, facendo anche di drammatici e inediti
dilemmi – quali la dura sofferenza di Piergiorgio Welby –
l’ennesima occasione per dividerci in modo ideologico.
Oppure possiamo - e a mio modo di vedere dobbiamo - trovare il
coraggio di ascoltare e comprendere le ragioni dei diversi
approcci e ricercare, insieme, soluzioni condivise.
E’ con questo impianto che la maggioranza di centrosinistra
intende giungere al riconoscimento dei diritti di coloro –
eterosessuali e omosessuali – che vivono in una convivenza di
fatto.
E’ una scelta giusta: perché è una legge giusta, civile e di
buon senso. Perché riconosce diritti a chi non ne ha. Perché è
uno strumento che consolida e rafforza legami affettivi e
personali di un rapporto di convivenza. Perché anche in una
coppia di fatto c’è sempre un partner esposto a maggiore
debolezza che deve essere tutelato. Tutte buone ragioni per
introdurre anche in Italia ciò che in altri paesi europei c’è da
tempo.
Ed è, dunque, infondato l’allarme paventato dall’Osservatore
Romano di uno “sradicamento della famiglia”, non solo perché non
vi è alcuna equiparazione giuridica tra famiglie e coppie di
fatto, ma perché una equilibrata normativa sulle convivenze
rafforza e non indebolisce i vincoli di solidarietà,
responsabilità e affettività tra conviventi, contribuendo così
anche ad una più forte e responsabile coesione sociale.
Cosi come appare necessario dare soluzioni normative adeguate a
temi non meno cruciali quali il testamento biologico,
l’accanimento terapeutico, la modifica della Fini-Giovanardi
sulle tossicodipendenze, la ricerca sulle cellule staminali. E,
non da oggi, penso che sarebbe una buona cosa se maggioranza e
opposizione, insieme, decidessero di migliorare la legge sulla
fecondazione assistita, almeno nei suoi punti più critici.
Non vi è, dunque, in noi alcun dubbio sulla necessità di un
rinnovato impegno riformatore sui temi etici. Così come non vi è
alcun dubbio sulle necessità di affermare la laica sovranità
dello Stato e delle sue istituzioni.
Ma proprio la delicatezza e la complessità di temi che investono
la vita e la morte, il destino della specie umana, la
generazione degli individui, la sessualità, la famiglia, il
rapporto tra scienza e natura, impongono la via del confronto,
del dialogo ravvicinato, della mediazione alta come le sole
strade per produrre soluzioni mature e condivise.
Questo atteggiamento peraltro è stato richiamato con molta forza
a conclusione della sua visita ufficiale al Papa dal Presidente
Napolitano, laddove ha invitato all’ascolto, alla comprensione
delle reciproche ragioni, alla ricerca del bene comune.
Insomma: se è pienamente diritto di una maggioranza legiferare
anche in queste materie – e lo rivendichiamo anche per il
centrosinistra – appare comunque opportuno perseguire, fino a
che è possibile, la ricerca della massima condivisione.
La laicità non è infatti un'ideologia, una visione compattamente
alternativa ad una visione religiosa concepita come altrettanto
chiusa e compatta.
Né la laicità è il rifugio in una presunta e illusoria
neutralità, in uno spazio asettico ove si pretende si possa
decidere senza fare i conti col pluralismo etico e religioso.
La laicità è riconoscimento di piena cittadinanza – dunque
rilevanza pubblica, non solo privata – per le diverse visioni
etiche e culturali.
Ma la laicità, da parte sua, esige che ognuna di queste visioni
accetti che l'assunzione di una decisione collettiva, tanto più
se di valore normativo e generale, sia ispirata al criterio
della ricerca della soluzione più adeguata e rispettosa delle
diverse sensibilità e non a quella della mera affermazione di
un'identità.
Anzi, la laicità dello Stato e delle sue leggi consiste non già
nel negare alla pluralità di approcci culturali, etici o
religiosi di manifestarsi, ma nella capacità di perseguire
soluzioni ispirate al rispetto delle scelte di vita di ogni
singola persona, all’universalità e uguaglianza dei diritti,
alla liberazione delle donne da ogni forma di oppressione o
negazione del loro genere, alla possibilità di esercitare la
libertà nella responsabilità.
Una laicità così intesa non solo non ha nulla da temere da un
partito nuovo, grande e plurale, ma ha tutto da sperare.
Perché solo un partito grande e plurale può superare la logica
della contrapposizione di identità separate.
Perché solo un partito grande e plurale può quindi produrre
soluzioni adeguate ai problemi nuovi e agli inediti dilemmi
etici che il nostro tempo ci propone.
E perché solo un partito grande e plurale può difendere la
laicità della ricerca di soluzioni adeguate e condivise, dalla
pressione dei fondamentalismi, degli integralismi, dei
clericalismi di tutte le osservanze.
Solo un partito grande e plurale può dimostrare coi fatti che
affrontare le questioni eticamente controverse, guardando in
avanti insieme e non dividendosi sulle prospettive di partenza,
è possibile e fecondo di soluzioni buone per il Paese.
Non si tratta dunque di sacrificare le ragioni della laicità
sull'altare del Partito democratico. Tutt'al contrario, sono
proprio le ragioni della laicità che ci chiedono di dare alla
democrazia italiana un partito grande e plurale, di laici e di
cattolici, di credenti e non credenti, capace di affrontare
senza pigrizie le grandi questioni antropologiche del nostro
tempo.
Peraltro non può essere elusa la consapevolezza di quanto
decisivo e strategico sia nella storia dell’Italia e per il
futuro del Paese il mondo cattolico e di come nessuna reale
alternativa democratica e di progresso sia praticabile se il
mondo cattolico volge il suo sguardo a destra.
E, anzi, l’Ulivo e il Partito Democratico sorgono proprio con
l’obiettivo di superare antichi steccati, facendo rincontrare
laici e cattolici, credenti e non credenti in un comune progetto
politico e culturale di rinnovamento e crescita della società
italiana.
*****
Il Partito Democratico dell'Ulivo sarà il Partito nuovo del
quale il Paese ha bisogno se saprà dar vita anche ad una forma
nuova di partecipazione democratica, di attivazione delle tante
energie disperse e talvolta sfiduciate, delle quali l'Italia è
ricca.
L'Italia non ce la farà a riprendere la via dello sviluppo e del
progresso senza una nuova stagione di mobilitazione civile nella
politica.
Anche per questo, il Partito nuovo non può limitarsi a essere
una federazione di partiti esistenti, che restano come sono. E
neppure la semplice fusione, inevitabilmente fredda, di due
apparati.
Unire i riformismi significa agire su due fronti: l’unità delle
forze politiche riformiste e il coinvolgimento in tale progetto
di una vasta opinione pubblica più larga di quel che oggi i soli
partiti rappresentano.
L’unità delle forze politiche riformiste ha certamente il suo
perno nell’intesa DS-Margherita, ma non si esaurisce in essa. Le
forze politiche che esprimono culture socialiste, repubblicane,
liberaldemocratiche, cristiano sociali, ecologiste sono
altrettanto necessarie se davvero si vuole realizzare l’unità
dei riformismi del nostro Paese.
In particolare noi pensiamo che del progetto del Partito
Democratico debba esser pienamente partecipe chi ha espresso ed
esprime una cultura riformista socialista: lo SDI – che è stato
tra i fondatori della Federazione dell’Ulivo - e anche il vasto
associazionismo politico di ispirazione socialista.
Non vi è contraddizione tra riaffermare con forza i valori – in
cui anche i DS si riconoscono – del riformismo socialdemocratico
e del socialismo liberale e farli incontrare con altre culture
riformiste nel Partito Democratico.
Anzi, il Partito Democratico è lo spazio nel quale si può
finalmente realizzare il progetto di una vasta unità socialista
che riunisca tutte le forze che si richiamano ai valori del
socialismo europeo per rafforzare così la più ampia unità di
tutti i riformisti.
Al tempo stesso, il Partito Democratico vuole essere un progetto
capace di guardare oltre i partiti, per parlare ad una vasta
moltitudine di giovani, di donne, di lavoratori, di cittadini,
molti dei quali si riconoscono nell’Ulivo, senza necessariamente
riconoscersi nei suoi partiti.
Di grande valore è l’appello lanciato proprio in questi giorni
da un ampio numero di personalità del mondo ambientalista, che
indica quante energie intellettuali, culturali, politiche
possono essere mobilitate per un progetto di innovazione
politica.
Né può essere mai dimenticato l’enorme patrimonio di energie
rappresentato dai 4 milioni di cittadini che parteciparono alle
primarie.
Così come cresce la sollecitazione che viene dai giovani, dal
mondo delle donne, dall’universo associativo per un processo
politico non rinchiuso nei recinti dei soli partiti.
Le stesse ampie e spesso impazienti aspettative che in tanti
cittadini ha suscitato e suscita il progetto del Partito
Democratico, ci dicono quanto grande sia la domanda di una
politica nuova.
A tutto questo è tempo di offrire un percorso di pieno
coinvolgimento nella costruzione del Partito Democratico.
Per noi DS è un punto dirimente che questa più ampia convergenza
di forze politiche, culturali, sociali si possa manifestare fin
dalle prossime settimane e per questo chiediamo a Romano Prodi,
nella sua qualità di leader dell’Ulivo, di promuovere da subito
sedi e appuntamenti per dare al processo di costruzione del
Partito Democratico questa configurazione aperta.
*****
Avvertiamo tutti quanto sia necessario un profondo rinnovamento
della politica, dei partiti, delle istituzioni, per superare la
lontananza e il senso di estraneità di una parte dei cittadini.
Il Partito Democratico può e deve essere l’opportunità di un
“partito nuovo” anche in questo: come rinnovamento della
politica.
Questo tema – ampiamente discusso a Orvieto – è spesso
rappresentato con una contrapposizione tra partiti e società
civile. O meglio: si tende ad accreditare la tesi per cui
soltanto con partiti “leggeri” e privi di strutture si possa
realizzare partecipazione attiva.
E’ un dilemma falso.
Non vi è alcun dubbio che oggi la politica abbia bisogno di
aprirsi e di adottare strumenti di larga partecipazione
democratica: primarie per scegliere premiership e candidati
nelle istituzioni; referendum per consultare periodicamente i
cittadini su questioni di grande rilevanza; assisi annuali
programmatiche aperte a saperi e competenze della società; voto
segreto per l’elezione dei dirigenti; termine di mandato per
favorire ricambio generazionale.
Ma tutto ciò può essere realizzato se c’è un’organizzazione
forte, capace, radicata, in grado di attivare, organizzare, far
vivere quegli strumenti.
E, dunque, se il Partito Democratico vorrà essere capace di
rappresentare domande e aspettative di una società complessa e
di promuovere la più ampia partecipazione dei cittadini, dovrà
essere un “partito”: con centinaia di migliaia di aderenti;
presente in tutti gli 8000 Comuni italiani; con un’attività che
non si limiti alle sole campagne elettorali; capace di
riconoscere il protagonismo delle donne; con una capacità di
selezione e formazione di nuove leve di dirigenti e
amministratori; con gruppi dirigenti riconosciuti e forte
valorizzazione delle figure istituzionali, nazionali e locali.
Insomma: se in qualcuno alberga il timore che si voglia dare
vita ad un partito “leggero”, privo di radici, più simile ad un
movimento di opinione o ad una somma di comitati elettorali,
sappia che questa non è l’intenzione nostra.
Il tema non è, dunque, contrapporre i partiti alla
partecipazione, ma fare del Partito Democratico l’occasione di
una straordinaria innovazione della politica e della forma
partito, nella direzione di un partito forte, radicato e
organizzato capace di apertura, osmosi, partecipazione
democratica.
Il tema sul quale dobbiamo confrontarci è semmai cosa voglia
dire, nel Ventunesimo secolo, un partito forte, radicato e
organizzato, consapevoli che quei partiti di massa, strutturati,
centralizzati, dotati di un forte collateralismo sociale, erano
anch’essi figli del ‘900 e della sua organizzazione produttiva e
sociale fordista.
Mentre oggi un moderno e forte partito lo dobbiamo pensare nella
modernità liquida, nel tempo reale, nella società flessibile.
E’ un tema che molti partiti socialisti europei stanno già
ponendosi, sperimentando forme di partito nuove e flessibili.
Un partito che nei momenti fondamentali della sua vita interna
assume decisioni coinvolgendo una platea molto vasta di
aderenti, sul modello delle nostre primarie per Prodi, e sulla
base del principio "una testa, un voto".
E poi, nella quotidianità, un partito capace di federare mille
realtà parziali, sulla base di una cultura pluralista, figlia
della società della rete, un vasto "rassemblement" di
organizzazioni territoriali, movimenti tematici, associazioni di
ambiente, di genere, di orientamento politico, di ispirazione
culturale.
*****
Proprio questo approccio ci consente di affrontare anche un
altro nodo del progetto: le modalità del processo costituente.
Il Partito Democratico nasce per un atto di volontà di partiti e
movimenti politici e associativi che decidono di costituire,
insieme, un nuovo soggetto politico. Il che comporta una
transizione caratterizzata da gradualità e processualità a cui
le organizzazioni fondatrici concorrano con la loro
organizzazione, le loro politiche e i loro gruppi dirigenti.
In altri termini: l’atto di nascita del nuovo partito non
avviene all’inizio del processo costituente, ma ne è l’esito
finale. Il che significa che i Congressi dei partiti convocati
nel 2007 non decideranno alcun scioglimento, ma saranno chiamati
a deliberare di voler essere partecipi del processo costituente
del nuovo Partito Democratico.
Così sarà anche per i DS che nel loro 4° Congresso non solo non
si scioglieranno, ma approveranno una piattaforma politica con
cui concorrere alla costruzione del Partito Democratico,
eleggeranno un Segretario e gli organismi dirigenti previsti
dallo Statuto, a cui sarà data la responsabilità di guidare i DS
nel nuovo progetto.
E il percorso costituente – la cui conclusione dovrebbe situarsi
alla vigilia delle elezioni europee – sarà scandito da tappe e
scelte a cui i partiti concorreranno decidendo insieme i profili
politici e organizzativi necessari. E si tratterà via via di
inventare i modelli e le forme organizzative più coerenti, anche
sulla base di esperienze già sperimentate in Italia ed in Europa
da altri partiti e movimenti.
Credo che così sia possibile chiarire la contrapposizione
partito o federazione che percorre il nostro dibattito.
Noi vogliamo costruire un “partito”, aperto e plurale, con i
caratteri che ho prima indicato, mentre una semplice federazione
di partiti sarebbe formula debole ed esposta rapidamente a
riflussi identitari.
Naturalmente la costruzione del partito nuovo, proprio perché
ispirata a processualità e gradualità, comporterà momenti
federativi.
L’importante è che sia chiaro che il fine è un partito e
passaggi pattizi sono un mezzo.
Insomma vogliamo costruire un percorso che non smarrisca la
ricchezza e l’articolarsi delle storie politiche di ciascuno, ma
le faccia incontrare e agire insieme nella costruzione di una
nuova identità comune, coinvolgendo anche la ricchezza dei tanti
apporti che la società italiana può offrire.
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Sono, dunque, queste la visione ideale, le ragioni politiche e
culturali, gli obiettivi progettuali che ci portano a sostenere
il progetto del Partito Democratico.
Quel che ci muove è la consapevolezza di dover dare all’Italia
una guida forte e autorevole, capace di dare corso ad una nuova
tappa della rivoluzione democratica italiana. Una guida ispirata
dai valori del riformismo, l’unica cultura politica dimostratasi
storicamente capace di tenere insieme uguaglianza e libertà,
diritti e modernità, solidarietà e innovazione.
Questo obiettivo lo vogliamo realizzare con i caratteri, il
profilo, l’ampiezza che ho indicato. Sapendo che il nostro
obiettivo non è una forma organizzativa, ma dare al paese una
politica riformista che resta, in ogni caso, la bussola
strategica dei Democratici di Sinistra.
Di tutto questo, dunque, discutiamo nel prossimo 4° Congresso
dei DS che vi propongo di convocare nella primavera prossima,
dando delega alla Direzione di fissarne la data definitiva alla
luce delle scadenze istituzionali e elettorali previste nello
stesso periodo.
E’ un Congresso straordinariamente importante al cui centro
vogliamo mettere l’Italia, il suo futuro, il suo destino.
E in funzione di questa sfida come far vivere un grande partito
democratico e progressista ispirato dai valori del riformismo.
Un Congresso che non segnerà affatto l’esaurimento della
sinistra, né lo scioglimento del suo principale partito.
Al contrario i Democratici di Sinistra mettono le loro idee, la
loro forza organizzata, la loro vasta classe dirigente, il
patrimonio delle loro idee e dei loro valori al servizio di un
progetto politico più grande: l’unità del riformismo italiano
per far vivere con ancora maggiore credito e consenso i valori
del socialismo e della sinistra: libertà, uguaglianza,
democrazia, solidarietà, pari opportunità, diritti, tutela della
dignità umana.
Per questo abbiamo bisogno di una forte tensione morale e
politica: i nostri iscritti, i nostri elettori non
accetterebbero un Congresso inutilmente polemico e astioso.
Né apprezzerebbero preannunci di separazioni o scissioni del
tutto lontane da quella domanda incalzante di unità, di
coesione, di responsabilità che ci viene rivolta ogni giorno
dalla nostra gente.
Proprio guardando alla nostra lunga storia possiamo ben
constatare che mai, in nessun momento, la divisione ha reso più
agevole misurasi con le sfide e invece, ogni qualvolta abbiamo
fatto prevalere l’unità e la condivisione, i nostri valori e il
nostro ruolo ne sono usciti più forti e riconosciuti.
E’ così anche oggi: il Partito Democratico nasce per unire, non
per dividere.
Insomma: quale che sia l’opinione di ognuno, ciascuno di noi non
può mai smarrire il senso di una comune appartenenza, di comuni
ideali e di un comune destino.
Quel che sarà l’Italia nei prossimo decenni dipende anche da noi
e dalle nostre scelte.
Quanto più uniremo, tanto più la nostra funzione dirigente sarà
utile alla sinistra e all’Italia.
Quanto più saremo fattore di unità, tanto più i cittadini si
riconosceranno in noi e nella nostra politica.
Ed è con la consapevolezza di questa enorme responsabilità che
dobbiamo guardare all’Italia e parlare agli italiani.