Pluralismo pacifista in
salsa vicentina
Repubblica
18-2-2007
Cinquanta,
ottanta, centomila? Qualcuno degli organizzatori, ad
un certo punto del corteo, si è lasciato andare ad
una stima-record: 200 mila presenze alla
manifestazione vicentina. Francamente esagerato, ma
certo erano tantissimi. Anche i vicentini erano
molti, ma quelli venuti da fuori molti di più. E la
sinistra radicale più numerosa di quella riformista.
Violenze nessuna. Qualche cartello (presto rimosso)
in favore dei "compagni che sbagliano", cioè degli
arrestati in odore di terrorismo. Insomma un corteo
pluralista quanto altri mai, perché in quei sei
chilometri della circonvallazione di Vicenza si
giocavano contemporaneamente molte partite.
Anzitutto la partita dei pacifisti senza se e senza
ma, per i quali anche la bandiera dell'Onu non conta
un fico secco come giustificazione e motivazione
delle missioni militari. Quel tipo di pacifisti
c'era a Vicenza; diciamo quelli personificati da
Dario Fo e Franca Rame.
Ma il pacifismo del 2007 non è più quello che nel
2002 riempì le piazze di tutta Europa, da Madrid e
Barcellona a Londra, a Berlino, ad Amsterdam, a
Bruxelles, a Stoccolma, a Roma, Milano, Napoli,
arrivando a cifre percentuali di oltre il 90 per
cento nei sondaggi d'opinione europei.
Quello era un pacifismo mirato e il suo bersaglio
era la guerra preventiva di Bush in Iraq che infatti
si è rivelata una catastrofe e trasformata in un
pantano. Era un pacifismo saggio con una meta
realistica e concreta.
Quello di oggi è piuttosto utopico e generico. Non
vuole l'allargamento della base americana a Vicenza
e forse ha dalla sua buonissime ragioni per non
volerlo, ma si è mescolato con un altro tipo di
pacifismo che ha colto la base Usa più come un
pretesto che come un vero obiettivo.
Si ispira piuttosto al vecchio slogan ideologico "yankees
go home", americani fuor dalle balle. Possiamo
organizzare cento cortei in altrettante città
italiane, ma se quello fosse lo slogan credo che non
raccoglierebbe più del 10 per cento dei consensi e
forse molto meno.
Da questo punto di vista la manifestazione di ieri
sarebbe stata assai più significativa se a farla
fossero stati i soli vicentini. La trasferta
pacifista ha in qualche modo manipolato Vicenza e
messo in seconda fila il dissenso civico sulla
questione della base. Certo, il governo dovrà
rivedere alcune modalità urbanistiche e negoziarle.
Ma non credo che andrà oltre questo.
Un'altra partita era quella tra sinistra radicale e
riformisti. Giordano e Diliberto (tra l'altro in
competizione tra loro per vedere chi meglio
rappresenta la sinistra-doc) escono rafforzati dalla
gita vicentina?
Con Giordano personalmente mi trovo d'accordo su
molte cose. Apprezzo anche la funzione di filtro e
di raccordo che quelle formazioni politiche
esercitano nei vari movimenti contestativi ai quali
cercano di fornire un "fumus" di rappresentanza
parlamentare e addirittura governativa.
Ma onestamente debbo dire che nel corteo vicentino
erano più ospiti che padroni di casa. Non c'era
nessun padrone di casa in quella manifestazione.
Neppure Epifani che pure aveva mobilitato una parte
cospicua della sua organizzazione. Ma niente a che
vedere con i Trentin e i Lama di piazza San Giovanni
e i Cofferati del Circo Massimo e non parlo del
numero delle presenze ma della compattezza degli
animi e della chiarezza degli obiettivi.
Ieri si dimostrava contro la base americana ma anche
contro la presenza militare italiana in Afghanistan.
Il vecchio slogan "dimmi con chi vai e ti dirò chi
sei" ieri era inapplicabile. L'ex sindaco
democristiano di Vicenza e attuale capogruppo
regionale dell'Ulivo, Achille Variati, ha qualche
cosa a che fare con Franca Rame e con i centri
sociali più scalmanati? E Franca Rame ha a che fare
con Di Pietro il cui partito l'ha fatta eleggere al
Senato? O con i leghisti "celoduristi" che pure
erano presenti nel corteo? Il segretario della Fiom
si sentiva a suo agio con Epifani e il segretario
della Cgil era in armonia con i Cobas che marciavano
alla testa del corteo dei "duri"?
Troppe partite si sono intrecciate ieri a Vicenza,
con la conseguenza che non ne è stata portata a
termine quasi nessuna. Salvo quella del questore che
si era impegnato a tutelare l'ordine pubblico in una
situazione di particolare difficoltà e c'è
pienamente riuscito.
Il questore di Vicenza, i millecinquecento uomini ai
suoi ordini, i vigili urbani del Comune e, a Roma,
il ministro dell'Interno hanno vinto la loro
difficile partita insieme al servizio d'ordine della
Cgil e alla compostezza delle decine di migliaia dei
partecipanti.
Quanto a Prodi, ne esce paradossalmente rafforzato.
Rifondazione che mobilita la sua gente pacifista e
che tra una settimana voterà il rifinanziamento
della missione militare in Afghanistan è la prova
che Prodi è inaffondabile, governa e non galleggia.
Sembra un paradosso ma non lo è. Da Vicenza questo è
tutto ed è parecchio.
* * *
Però la città del Palladio per chi ha la mia età
richiama anche un altro genere di ricordi, di nuovo
tornati di rilevante attualità. Parlo della grande
provincia bianca, feudo negli anni
Cinquanta-Settanta della Dc, delle diocesi più
potenti, delle cooperative bianche, delle banche
popolari, d'un predominio organizzativo e culturale
saldissimo.
Di quella lunga fase di egemonia è rimasto assai
poco a Vicenza e in tutto il Nordest, salvo un senso
di separatezza che ha consentito un forte
insediamento della Lega nel triangolo con Verona e
Treviso.
Il Veneto rispetto a com'era fino a vent'anni fa si
è secolarizzato più rapidamente di qualsiasi altra
regione italiana. Se c'è una terra di missione dove
l'episcopato dovrebbe cimentare le proprie capacità
pastorali è proprio lì, nelle terre venete uscite
ormai dalle "dande" di Santa Romana Chiesa alla
scoperta del buon vivere, dei piccoli piaceri della
provincia italiana e della sua vocazione
internazionale.
Qui la Chiesa è ancora massicciamente presente con
il suo radicato temporalismo economico ma le
coscienze non sono più sotto la sua tutela e la
Vandea bianca è scomparsa. Bossi è in declino, il
berlusconismo è ancora vigile ma in perdita di
velocità. I veneti sono "in ricerca", ma neppure
loro sanno dire di che cosa.
Io capisco perché l'episcopato italiano è
preoccupato. Lo si comprende bene guardando proprio
il Nordest, il miracolo del Nordest con al centro
l'impresa, il lavoro, il valore, i segni materiali
della ricchezza.
La Chiesa teme che tra ricchezza e laicizzazione del
vivere vi sia un rapporto diretto. Per questo pensa
di dover aumentare la presa sulle istituzioni
pubbliche: non riuscendo più a controllare
l'evoluzione del costume, spera di supplire a questa
lacuna controllando le leggi.
Quando la Chiesa inclina dalla pastoralità alla
temporalità, questo è un segnale di debolezza. L'ala
martiniana dell'episcopato italiano ha compreso
questo segnale di debolezza e cerca di invertirne il
corso che i ruiniani invece spingono avanti con
irruenza.
Quando Rosy Bindi dice di amare una Chiesa che parli
di Dio coglie il centro della questione. Non è
infatti con le norme di leggi che si argina la crisi
della famiglia che soffre soprattutto per il fatto
d'essersi ridotta ad una coppia o al triangolo di
cui il figlio unico rappresenta il punto di
riferimento esclusivo.
In società composte da "single" o da famiglie
cellulari, la religiosità boccheggia e l'intera
Europa diventa per i preti terra di missione. La
vera patria della cattolicità si è spostata verso il
Sud del mondo, America Latina e Africa. In queste
condizioni un Papa tedesco e per di più teologo è
stato probabilmente un errore della Chiesa che
sembra ormai arroccata in una battaglia di
retroguardia guidata dalla parte temporalistica
dell'episcopato e da una pattuglia di atei devoti
che coltivano obiettivi esclusivamente politici.
Per un laico fa senso assistere ad una fenomenologia
così scadente e rivolta all'indietro. Si vorrebbe
che la Chiesa parlasse dei valori dello spirito e
non fosse dominata da una sorta di ossessione
sessuofobica che finisce col discriminare i più
deboli: le coppie non abbienti, etero e omosessuali
che siano. Le coppie benestanti non hanno bisogno
della reversibilità della pensione o dell'assistenza
sanitaria o degli alimenti e se ne infischiano dei
divieti alla procreazione assistita se necessario
vanno all'estero e pagano i medici di tasca propria.
C'è un profumo di classismo all'inverso
nell'opposizione della Cei ai Dico.
Ma la cosa più singolare l'ha detta appena ieri
Benedetto XVI denunciando la pressione di potenti "lobbies"
che vorrebbero ridurre al silenzio la voce della
Chiesa. Incredibile. La Cei del cardinal Ruini si
sta muovendo da anni come la più potente delle "lobbies"
e il Papa protesta contro supposti gruppi di
pressione che vorrebbero confiscarne il diritto ad
esprimersi.
Chi sarebbero questi lobbisti? Oscar Luigi Scalfaro?
Il vescovo Plotti? Il cardinal Silvestrini? Il
cardinal Tettamanzi? Pietro Scoppola? I giornali di
cultura laica?
Infine: si dice Oltretevere che le prescrizioni
della Cei ai parlamentari sulle modalità della
legislazione non costituiscono ingerenze e quindi
non c'è ragione di chiamare in causa il Concordato.
Ebbene, quali sono dunque le ingerenze
ipoteticamente definibili come tali? Può qualche
cattolicante in servizio permanente effettivo
darcene un esempio? Oppure dobbiamo pensare che
qualunque cosa faccia e dica la Cei, non esiste mai
ingerenza nei confronti dello Stato mentre
ovviamente il reciproco non è vero?
Coraggio: a noi basta un solo esempio tanto per
poter fissare un limite sia pur piccolo
all'attivismo illimitato del Vaticano nei confronti
di uno Stato definito sovrano purché si rassegni ad
essere etero diretto dal Papa e dai vescovi da lui
nominati.